La sostenibilità ambientale
Per impatto ambientale di un prodotto o di una produzione, si intende sia quanto esso “pesa” in termini di consumo di risorse naturali (per esempio acqua o territorio), sia quanto produce in termini di emissioni dannose (prima tra tutti la Co2 principale responsabile dell’effetto serra che causa il cambiamento climatico).
Qualunque attività umana, seppure con livelli diversi, produce un impatto ambientale. Tra queste il cibo, e tutta la filiera agroalimentare, è in testa alle classifiche dell’impatto se si tiene conto di tutte le fasi che la compongono: dal campo, fino alla fase di cottura e smaltimento, passando attraverso la produzione, il trasporto e la distribuzione.
In particolare, la fase agricola è il momento della filiera in cui si rilevano gli impatti maggiori, soprattutto se si adottano alcune tecniche colturali di tipo intensivo. Gli impatti possono essere contenuti, a volte in modo sostanziale, per esempio prevedendo la rotazione colturale, o adottando i metodi dell’agricoltura biologica.
Per quanto riguarda specificamente il frumento tenero, gli impatti sono dovuti prevalentemente a fertilizzanti (sintetici o naturali che siano), all’irrigazione se esistente, ai trattamenti antiparassitari ed al gasolio per le macchine agricole.
Gli impatti del molino sono ridotti e dipendono sostanzialmente dall’energia elettrica. Ha anche un basso impatto in termini di rifiuti generati, anche perché i suoi sottoprodotti vengono normalmente utilizzati dalle industrie mangimistiche, realizzando così un chiaro esempio di economia circolare.

Puntare sulla crescita a tutti i costi facendo leva sull’aumento della produzione e sull’incentivo al consumo senza mettere in conto tutti i rischi ambientali che ne derivano non è più possibile né conveniente per garantire il benessere e la stessa sopravvivenza dell’umanità. Consumatori e imprese debbono investire per ridurre il proprio impatto ambientale perché le risorse a nostra disposizione non sono infinite e devono essere tutelate e risparmiate.
Per impatto ambientale di un prodotto o di una produzione s’intende sia quanto esso “pesa” in termini di consumo di risorse naturali (per esempio acqua o territorio), sia quanto produce in termini di emissioni dannose (prima tra tutte la famigerata Co2 principale responsabile dell’effetto serra che sta causando il cambiamento climatico). Qualunque attività umana, seppure con livelli diversi, produce un impatto ambientale.
La produzione di energia e il riscaldamento delle abitazioni, insieme ai trasporti, sono in testa nella classifica delle attività dannose. Mentre è meno noto che il cibo, e tutta la filiera agroalimentare coinvolta nella sua produzione, si attesta su livelli analoghi se non addirittura superiori. Dobbiamo ricordare che ogni prodotto alimentare che arriva sulle nostre tavole ha un suo impatto più o meno significativo che deve essere valutato al fine di mettere in campo le azioni necessarie a ridurlo.
Oggi tutte le aziende, comprese quelle agroalimentari, sono chiamate a intervenire sulle loro attività per ridurre l’impatto ambientale. Non è un compito semplice perché il valore di un intervento a favore dell’ambiente viene riconosciuto dal mercato e quindi anche dal consumatore solo nel caso in cui il prodotto finito sia percepito come migliore, ad esempio perché contiene meno residui chimici. La realtà, come sempre, è però molto più complessa.
Prendiamo il caso in cui si debba scegliere tra un prodotto con water footprint basso, ma coltivato in un paese lontano e che quindi richiede tragitti più lunghi per il trasporto (incidendo negativamente sul carbon footprint) e un prodotto “a chilometro zero” ma coltivato in una zona più arida (e quindi con waterfootprint alto). Oppure tra OGM che possono (almeno per un certo periodo) stabilizzare le rese ma hanno alti impatti ambientali per il tipo di agricoltura (intensiva) che essi richiedono, e agricoltura biologica che non fa uso di prodotti chimici di sintesi e, a fronte di una performance ambientale nettamente migliore, richiede tecniche agronomiche estensive e rotazioni delle colture.
La valutazione degli impatti di un qualunque prodotto può essere eseguita con metodi diversi.
Ad esempio, l’impronta ambientale di prodotto PEF (Product Environmental Footprint) è un metodo basato sul Life Cycle Assessment (LCA), impiegato al fine di calcolare la performance ambientale di un prodotto o di un servizio lungo il suo intero ciclo di vita.
Nello specifico l’analisi del ciclo di vita – Life Cycle Assessment (LCA – regolata a livello internazionale dallo standard ISO 14040) è quella più utilizzata negli ultimi anni, perché tiene conto di tutti gli aspetti della filiera, a partire dalla fase agricola (che sta alla base di tutti gli alimenti), fino alla fase di cottura e smaltimento, passando attraverso la produzione, il trasporto e la distribuzione.
Per rendere facilmente comprensibili e comunicabili i risultati degli studi LCA si utilizzano indicatori di sintesi che consentono di rappresentare in modo aggregato e semplice gli impatti ambientali. Nella filiera agroalimentare sono generalmente tre gli indicatori utilizzati per controllare l’impatto: le emissioni di gas serra, il consumo di acqua e il territorio utilizzato per produrre le risorse.
Il Carbon Footprint (impronta carbonica), calcola l’impatto, espresso in termini di emissione di anidride carbonica equivalente (CO2eq), associato alla produzione di un bene o di un servizio lungo l’intero ciclo di vita del sistema indagato. Per la sua semplicità in termini di comunicazione e comprensione, questo indicatore è il più usato nelle attività di divulgazione pubblica. Nel calcolarlo sono sempre considerate le emissioni di tutti i gas a effetto serra, il cui contributo è determinato da due fattori: la quantità emessa e il suo fattore d’impatto misurato in termini di Global Warming Potential.
Il Water Footprint è un indicatore che misura, in litri o metri cubi, l’acqua dolce consumata per realizzare un prodotto, sommando tutte le fasi della catena di produzione. È definito anche “contenuto d’acqua virtuale” perché tiene conto sia dell’acqua impiegata in fase di produzione (contabilizzata attraverso i consumi diretti), sia di quella utilizzata per produrre le materie prime necessarie (consumi indiretti).
L’Ecological Footprint (impronta ecologica) è un indicatore che permette di misurare la superficie terrestre o marina (biologicamente produttiva) necessaria a fornire le risorse consumate e ad assorbire i rifiuti prodotti, in rapporto alla capacità della Terra di rigenerare le risorse naturali.
Più la filiera è complessa e più lavorazioni e trasformazioni subisce la materia prima per arrivare al consumatore, più l’impatto ambientale del prodotto alimentare è alto. Se, invece, un alimento ha bisogno di lavorazioni minime come gli ortaggi o la frutta avrà ovviamente un basso impatto. Ogni fase della filiera agroalimentare genera un diverso impatto ambientale.
Il molino è generalmente un impianto molto “semplice” e pulito nel quale l’impatto ambientale dipende sostanzialmente dall’energia elettrica. Ha anche un basso impatto in termini di rifiuti visto che gli scarti vengono normalmente utilizzati dalle industrie mangimistiche.
L’unico impatto consistente è a monte della filiera agricola e deriva prevalentemente dall’uso dei fertilizzanti sintetici o naturali che siano, dall’acqua, quando i campi sono irrigati, e dal gasolio per le macchine.
Come esempio un chilogrammo di farina ha un carbon footprint pari a 594 grammi di Co2, corrisponde a 10 mq di ecological footprint e 1.850 litri di water footprint cioè la sua produzione richiede quasi 2.000 litri d’acqua e corrisponde a 10 mq di ecological footprint.
La fase agricola serve ad ottenere le materie prime indispensabili per produrre il cibo o per nutrire gli animali di allevamento. Gli impatti ambientali di questa fase possono derivare da: la produzione delle sementi, l’utilizzo dei fertilizzanti, sia chimici sia naturali, gli agrofarmaci, il gasolio consumato per le macchine agricole, l’acqua utilizzata per l’irrigazione.
Quasi sempre, la fase agricola è il momento della filiera a maggiore impatto sull’ambiente soprattutto se si adottano tecniche colturali di tipo intensivo. L’impatto può essere contenuto, talvolta in modo sostanziale, se si prevedono la rotazione colturale o i metodi dell’agricoltura biologica.
Anche la stagionalità delle coltivazioni ha la sua incidenza sull’ambiente: i vegetali coltivati “fuori stagione” hanno infatti impatti ambientali maggiori. Le serre riscaldate richiedono infatti un maggiore consumo di energia, e le rese dei prodotti possono ridursi significativamente, fino a dimezzarsi.
La maggior parte delle materie prime agricole richiede una prima trasformazione per essere impiegate in un processo produttivo. L’esempio classico è quello dei cereali che, per essere impiegati, vanno prima macinati in un molino. In questa fase gli impatti sono calcolati considerando i consumi di energia e acqua necessari a far funzionare il molino.
In questa fase, la materia prima viene trasformata nel prodotto finito. L’impatto ambientale deriva dai consumi di energia e acqua dello stabilimento di produzione e varia secondo la tipologia e la quantità di prodotto lavorato, e l’efficienza dell’impianto di trasformazione. I consumi comprendono l’energia utilizzata per far funzionare le linee di produzione e quella necessaria per garantire la refrigerazione.
Per l’imballaggio del prodotto finito si utilizzano materiali molto diversi tra loro. I più comuni sono la carta e il cartone, la plastica e il vetro. Solitamente l’impatto ambientale del packaging dipende da quanto e cosa si produce e da quanto e come possono essere smaltiti i diversi materiali di confezionamento.
Il prodotto alimentare viene trasferito dallo stabilimento di trasformazione al punto di distribuzione e vendita, con un impatto ambientale che dipende dal tipo di mezzo di trasporto e dal numero di chilometri percorsi. L’impatto ambientale di questa fase è piuttosto modesto rispetto alla coltivazione e produzione; è rilevante solo per gli alimenti a basso impatto complessivo, come ortaggi e frutta, se trasportati per lunghi tragitti o con mezzi di trasporto con emissioni elevate, come l’aereo.
Le tecniche di cottura utilizzate sono molto diverse tra loro e quindi è diverso anche il loro impatto ambientale. Influiscono la ricetta, il tipo di preparazione e le attrezzature casalinghe o professionali. Gran parte dell’impatto dipende inoltre dal mix energetico messo a disposizione dal fornitore di energia elettrica, diverso secondo il paese o la regione in cui il prodotto viene consumato. La cottura domestica può avere un impatto in termini di emissioni di CO2 anche superiori rispetto all’intera filiera di produzione e trasporto del prodotto stesso.
I rifiuti prodotti dagli imballaggi sono parte integrante della filiera di produzione alimentare e il loro impatto sull’ambiente deve essere quindi correttamente valutato.
Lo smaltimento di un imballaggio a fine vita è complesso perché tiene conto di quanti e di quali materiali è fatto il prodotto, del comportamento del consumatore e dei processi di smaltimento.
In ogni caso sono tre i destini finali di un imballaggio: il riciclo, il recupero energetico e/o la discarica.



